A cura di Whatsupin@rt – Roberta Foglino e Paola Zanchi – 2011

Piero Leonardi nasce a Roma nel 1957. A partire dagli anni Ottanta la sua passione per la fotografia intercetta l’esperienza di Tazio Secchiaroli – maestro del reportage sociale negli anni de La Dolce Vita felliniana, primo riconosciuto fotoreporter del cinema italiano: è lui che nel 1981 seleziona gli scatti di Piero per la mostra d’esordio – “Irpinia un anno dopo” – un fotoreportage sulla ricostruzione dei luoghi e del tessuto umano che si ri-animano a un anno dal terremoto; il suo sguardo fotografico oscilla tra una partecipazione sensibile al degrado umano e sociale e un’ironia caustica che coglie i paradossi nel dramma.

Tra il 1981 e il 1982 Piero conosce Ugo Attardi, Giacomo Manzù, Carmelo Martinez e Miguel Ortiz Berrocal, con i quali si apre un fecondo scambio artistico e un confronto dinamico che sfocia nel progetto di una mostra fotografica dal titolo “Sculture Vive”.
Attratto dai dettagli – forme circoscritte che, da sole, avrebbero potuto narrare l’essenza dell’opera – fin dall’inizio la sua visione della scultura è istintivamente concentrata sulla sintesi e sulla materia: la sua struttura, le sue forme, il suo linguaggio.
Fotografare significa raccontare l’esistente nell’intimo: linee, luci ed ombre che siano in grado di restituire l’atmosfera del pensiero dello scultore e non esclusivamente della sua opera.
Stessa sintesi narrativa viene ricercata, pochi anni dopo, quando nel 1984 Piero approda alla macro.
La sua fotografia si concentra su universi minimi, dove il dettaglio, quale un rocchetto di filo, usurato dalla quotidianità dello sguardo consumistico, ri-acquista la dignità di una realtà vivente di colori e forme.

Negli anni ’90, con la diffusione delle nuove tecnologie digitali, l’arte fotografica subisce una metamorfosi socio-culturale, trasformandosi in un cosiddetto “fenomeno di massa”.
Se l’ampia diffusione consente a chiunque di diventare un “fotografo”, come è possibile allora – si interroga Piero – per ciascuno di noi, identificarsi attraverso le foto che realizziamo? La percezione della realtà è individuale, dunque riuscire a fotografare in quest’ottica, significa mostrare un punto di vista soggettivo: la nostra univoca visione.
Tra il ’99 e i primi anni del 2000 l’intuizione fondante del “pensiero fotografico” dell’artista si consolida.
Determinato ad indagare le nuove sensibilità ispirative, sviluppa un approccio tecnico-artistico di carattere più speculativo e sistemico.

Ora intende fotografare non più solo la materia, ma piuttosto le percezioni che nascono dal rapporto tra il fotografo e l’oggetto-soggetto. Piero stesso definisce questo tipo di ricerca “L’Anima delle Cose”.
Penetrare l’anima delle cose significa svelare legami impercettibili tra il mondo e chi lo osserva e catturare perciò aspetti che vanno oltre al comune vedere, attingendo all’essenza più nascosta alla superficialità dello sguardo.
E’ questa intuizione che lo porta ad elaborare il concetto di Fotografia Percettiva, secondo il quale ad essere fotografato non è l’oggetto, né come documento, né come interpretazione, piuttosto il messaggio che intercorre tra chi fotografa e quell’oggetto-soggetto.
Nella Fotografia Percettiva, il fruitore è portato ad accettare lo stravolgimento dell’artista, a volte trasfigurando ulteriormente ciò che il fotografo “ha visto”. Del resto – sostiene Piero – in una fotografia esiste sia ciò che mostriamo, sia ciò che facciamo immaginare.
Ha inizio una fase di intensa sperimentazione attorno al concetto di pareidolia, alla base dell’intuizione dell’artista.
La tendenza istintiva e automatica a ri-trovare forme familiari o subconscie in immagini o dettagli tratti dalla natura confluisce, tra il 2004 e il 2005, nella collezione Pepperlife: torsioni, trasparenze e colori vengono esplorati con libertà di sguardo e di mente che consente all’artista di ri-leggere con divertita ironia le pulsioni seduttive di forme naturali e strutture organiche.

Sorprende visualizzare Piero nelle campagne romane mentre libera alcuni papaveri dal vincolo dello stelo e, non più ancorati alla terra … li fa volare, seppure, attraverso i suoi scatti; ne coglie il desiderio di infinito e di libertà e sprigiona la loro anima nella collezione Butterflowers.

Contemporaneamente l’artista “scopre” le cave di marmo delle Alpi Apuane.
La sua attenzione si sposta nelle pieghe e nelle spaccature della roccia per catturare, o meglio, “cavare” quell’interiorità ancora intatta, custodita per millenni nella memoria della materia. “Se ti lasciano entrare” – afferma – “significa che vogliono farsi scoprire, capire, scrutare. Decisi di accontentarle, entrando sempre più nel loro intimo: quadri nei quadri, o nelle sculture. Un gioco di scatole cinesi fatto di arte naturale.”
L’artista-fotografo entra nelle forme geologiche della roccia, attraverso un’esplorazione di superficie e improvvisi carotaggi in profondità. Semplici segni, velature, tracciati sgocciolati, macchie di colore, cretti e graffiti, geometrie lineari o cromatiche costituiscono l’alfabeto informale e astratto, a volte connotato da significati allusivi e pareidoleici, alla base della ricerca tuttora in divenire di Color on the Rock.

Emerge con sempre maggiore chiarezza una visione soggettiva dell’operazione fotografica, dove il mezzo si trasforma in medium di una poetica artistica.
L’approccio di Piero mira a focalizzare e sviluppare la presa di coscienza della propria “Calligrafia Fotografica”: una scrittura visiva peculiare, in grado di fissare l’osservazione percettivo-artistica del mondo e, di conseguenza, di trasformarla in uno stile visivo riconoscibile e rappresentativo dell’unicità di osservazione prospettica, quella che lui stesso definisce “Stile di Vista”.
Con un atto di coraggio, la fotografia dell’artista si svincola dal dovere della rappresentazione di un oggetto, del documento umano, vocazione originaria del linguaggio fotografico, per indagarne piuttosto le potenzialità autonome e conoscitive. Egli procede per frammenti strappati alla realtà, che suggeriscono una dimensione “altra”, dove il cambiamento di contesto fa assumere ai suoi scatti la forza di readymade che cortocircuitano l’esperienza della nostra presenza materiale nel mondo.
Ne è una dimostrazione la collezione Purgatory, nata dal paesaggio etereo ed evocativo delle colline e valli invernali dell’appennino umbro-marchigiano.
Osservando le fotografie dell’artista si prova un senso di disorientamento. Dov’è l’alto e il basso? Nuvole o macchie di luce? Aria o neve? Cielo o terra? I segni naturali perdono della loro consistenza e diventano strumenti di un processo di dis-locazione spiazzante, dove “la cosa” si separa dai suoi punti di ancoraggio.

Se la fotografia nella sua essenza ontologica, secondo alcuni, agisce attraverso tagli dentro alla realtà, in Piero l’azione è ancora più radicale, fino ad arrivare a una forma di ri-scrittura del reale, dove i segni fissano la traccia di qualcosa di invisibile e si trasformano in segni non-naturali.
In Landsigns la serialità del taglio è una costante: lo strumento tecnico, la macchina fotografica, si riduce a puro prolungamento di un gesto che incide con forza nel continuum spaziale, espelle il rapporto con la terra, strappa dal tessuto materico segni di un linguaggio dove la luce e l’ombra diventano l’inchiostro di una scrittura visiva.
L’idea della cosa assente è lì, indicata da “vettori” e assi che dividono il campo in zone luminose e scure che, se apparentemente fanno appello al nostro senso di orientamento, di fatto ci spiazzano nell’imprevedibilità delle soluzioni.
Ne deriva una fotografia a “doppio taglio”, dove il segno linguistico “raddoppia” le sue potenzialità, come in uno specchio. Tuttavia, qui, l’indagine fotografica dell’artista non si ferma solo alle forme geometriche primarie, ma esplora valenze diverse, legate anche alla specificità dei materiali nella loro opposizione di consistenza – terra/neve – destinati a essere consumati da processi di trasformazione e deterioramento della natura per essere assunti come segni artificiali.

Piero sceglie volutamente di muoversi, quasi ad ingaggiare una sfida con un soggetto consumato e usurato, all’interno di un paesaggio – quello di Antelope Canyon- sfruttato da una fotografia turistica di massa, facilmente coinvolta dalla suggestiva caratteristica cromatica del contesto sotterraneo. Qui, di nuovo, si cala in profondità, scalpellando in presa diretta una scrittura plastica che stravolge l’anatomia della roccia e crea sculture involontarie. In questa fase di ricerca riaffiorano in Piero gli echi di “Sculture Vive”.
Le sue immagini si metamorfizzano al momento dello scatto e si caricano di un valore ambiguo e fortemente allusivo: distorsioni, stratificazioni, cavità, scorrimenti di materia e luce evocano segni archetipici che assurgono a statuti semiologici, sospesi tra una lettura onirica – che a volte rasenta un simbolismo erotico – e un autonomo interesse plastico.

In bilico tra scrittura visiva e indagine plastica, in una nuova estensione spaziale, si collocano gli scatti di Graphics. Oggetti minimi del paesaggio, isolati entro ampie campiture di non-colore, ricostruiscono una sintassi visiva che è il risultato di un’operazione mentale autonoma, attraverso la quale Piero sviluppa una foto-non-foto, un linguaggio informale al limite tra astrattismo e spazialismo, tra arte povera e surrealtà.
L’intervento dell’artista amplifica il dettaglio minimo, lo sgancia dal mondo inerte delle cose per inserirlo in una sfera ideale, dove acquisisce una valenza reversibile e interscambiabile.
Piero rafforza l’indagine concettuale: l’operazione dell’artista diventa escludente, attraversa un processo di riduzione che approda alla focalizzazione di primary structures. Estroflessioni ritmiche, superfici materiche, purezza monocromatica, scarti dimensionali, impronte e sculture disegnate cineticamente da luci e ombre – quali inediti mobiles – creano un’osmosi tra realtà e sur-realtà, ri-catturano quella dimensione “altra”, in quanto segreta, dove il tempo, lo spazio e la forma si sintetizzano in una sospensione astratta.

In questi ultimi anni, gli scatti fotografici dell’artista hanno messo a fuoco il senso univoco della sua ricerca: le sue collezioni rivelano elementi trasversali coerenti, indicano la priorità del suo linguaggio artistico e mettono in rilievo orientamenti espressivi e scelte narrative che conferiscono un carattere peculiare alla sua produzione.
La ricerca di Piero spazia dunque dallo scavo visivo entro le risonanze grafiche e segniche della materia, all’evocazione eterea e metafisica di spazi di luce; dalla mappatura dilavata e chiaroscurale di tracciati visivi, alla ricognizione della forma scultorea e cromatica, recuperata da profondità viscerali, e si concentra su composizioni astratte e minimaliste in spazi vuoti e bianchi. Piero si interessa ora principalmente alla fotografia generalmente identificata come “concettuale”, oltre alle nuove categorie epistemologiche da lui elaborate.
In che lingua ci parla l’opera di Piero? La sua calligrafia visiva ha la capacità di s-velare l’oggetto nella sua presenza-assenza, nella sua allusività, per ri-evocarlo, ri-costruirlo e presentificarlo nella sua evidenza panica.
La sua prospettiva poetica rilegge a ritroso, nel segno inciso nella materia, nel vuoto dello spazio, nel singolo elemento, nella forma plastica, la traccia del tempo, non per misurarlo, quanto piuttosto per farsi medium con la sua origine, attraverso una manipolazione che ne ricrea la memoria.
Questo tipo di azione porta l’artista lontano dall’idea di fotografia come rappresentazione, e rafforza, piuttosto, la concettualità del suo linguaggio.
In questo senso, la fotografia dell’artista sembra raccogliere l’eredità delle sperimentazioni degli anni ’60 e ’70, per cui la fotografia funziona come medium di un processo di relazione riproposto virtualmente al fruitore e diventa lo strumento privilegiato di intervento concettuale sulla realtà, operando una sintesi sul senso dell’immagine, sull’atto che l’ha generata.
Ancor più Piero si fa interprete di quella liberalizzazione totale dell’operatività artistica, acquisita negli anni ’80 con il concettuale: la sua fotografia diviene oggetto di riflessione, segno di un linguaggio artistico da creare.
Ne scaturisce una “Calligrafia Fotografica” che manifesta in modo sempre più netto altre parentele, altre afferenze, ricollegandosi a contaminazioni linguistiche proprie dell’arte contemporanea e che bene si inserisce nella connotazione di un linguaggio al confine osmotico tra Arte-Fotografia/Fotografia-Arte.

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